mercoledì 17 febbraio 2016

mercoledì 10 febbraio 2016

Novella I Giornata I Ser Cepparello da Prato (II A)
































Apologo delle papere (introduzione IV giornata)



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Sono adunque, discrete donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi, e alcuni han detto peggio, di commendarvi, come io fo. Altri, più maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia età non sta bene l’andare omai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacer loro. E molti, molto teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei più saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra voi.

E son di quegli ancora che, più dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto che io farei più discretamente a pensare dond’io dovessi aver del pane che dietro a queste frasche andarmi pascendo di vento. E certi altri in altra guisa essere state le cose da me raccontate che come io le vi porgo, s’ingegnano, in detrimento della mia fatica, di dimostrare.

Adunque da cotanti e da così fatti soffiamenti, da così atroci denti, da così aguti, valorose donne, mentre io ne’ vostri servigi milito, sono sospinto, molestato e infino nel vivo trafitto. Le quali cose io con piacevole animo, sallo Iddio, ascolto e intendo; e quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie forze; anzi, senza rispondere quanto si converrebbe, con alcuna leggiera risposta tormegli dagli orecchi, e questo far senza indugio. Per ciò che, se già, non essendo io ancora al terzo della lo mia fatica venuto, essi sono molti e molto presummono, io avviso che avanti che io pervenissi alla fine essi potrebbono in guisa esser multiplicati, non avendo prima avuta alcuna repulsa, che con ogni piccola lor fatica mi metterebbono in fondo, né a ciò, quantunque elle sien grandi, resistere varrebbero le forze vostre.

Ma avanti che io venga a far la risposta ad alcuno, mi piace in favor di me raccontare non una novella intera (acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compagnia, qual fu quella che dimostrata v’ho, mescolare), ma parte d’una, acciò che il suo difetto stesso sé mostri non esser di quelle; e a’ miei assalitori favellando, dico che nella nostra città, già è buon tempo passato, fu un cittadino, il qual fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizione assai leggiere, ma ricco e bene inviato ed esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea; e aveva una sua donna moglie, la quale egli sommamente amava, ed ella lui, e insieme in riposata vita si stavano, a niun’altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l’uno all’altro.

Ora avvenne, sì come di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di sé a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il quale forse d’età di due anni era.

Costui per la morte della sua donna tanto sconsolato rimase, quanto mai alcuno altro amata cosa perdendo rimanesse. E veggendosi di quella compagnia la quale egli più amava rimaso solo, del tutto si dispose di non volere più essere al mondo, ma di darsi al servigio di Dio, e il simigliante fare del suo piccol figliuolo. Per che, data ogni sua cosa per Dio, senza indugio se n’andò sopra Monte Asinaio, e quivi in una piccola celletta si mise col suo figliuolo, col quale di limosine in digiuni e in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare là dove egli fosse d’alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere, acciò che esse da così fatto servigio nol traessero, ma sempre della gloria di vita etterna e di Dio e de’ santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandoli; e in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo uscire, né alcuna altra cosa che sé dimostrandogli. Era usato il valente uomo di venire alcuna volta a Firenze, e quivi secondo le sue opportunità dagli amici di Dio sovvenuto, alla sua cella tornava.

Ora avvenne che, essendo già il garzone d’età di diciotto anni e Filippo vecchio, un dì il domandò ov’egli andava. Filippo gliele disse. Al quale il garzon disse: - Padre mio, voi siete oggimai vecchio e potete male durare fatica; perché non mi menate voi una volta a Firenze, acciò che, faccendomi cognoscere gli amici e divoti di Dio e vostri, io che son giovane e posso meglio faticar di voi, possa poscia pe’ nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerà, e voi rimanervi qui?

Il valente uomo, pensando che già questo suo figliuolo era grande, ed era sì abituato al servigio di Dio che malagevolmente le cose del mondo a sé il dovrebbono omai poter trarre, seco stesso disse: - Costui dice bene - Per che, avendovi ad andare, seco il menò.

Quivi il giovane veggendo i palagi, le case, le chiese e tutte l’altre cose delle quali tutta la città piena si vede, sì come colui che mai più per ricordanza vedute non n’avea, si cominciò forte a maravigliare, e di molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero.

Il padre gliele diceva; ed egli, avendolo udito, rimaneva contento e domandava d’una altra. E così domandando il figliuolo e il padre rispondendo, per avventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne e ornate, che da un paio di nozze venieno; le quali come il giovane vide, così domandò il padre che cosa quelle fossero.

A cui il padre disse: - Figliuol mio, bassa gli occhi in terra, non le guatare, ch’elle son mala cosa.

Disse allora il figliuolo: - O come si chiamano?

Il padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole disiderio men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma disse: - Elle si chiamano papere.

Maravigliosa cosa a udire! Colui che mai più alcuna veduta non n’avea, non curatosi de’ palagi, non del bue, non del cavallo, non dell’asino, non de’ danari né d’altra cosa che veduta avesse, subitamente disse: - Padre mio, io vi priego che voi facciate che io abbia una di quelle papere.

- Ohimè, figliuol mio, - disse il padre - taci: elle son mala cosa.

A cui il giovane domandando disse: - O son così fatte le male cose?

- Sì - disse il padre.

Ed egli allora disse: - Io non so che voi vi dite, né perché queste siano mala cosa; quanto è a me, non m’è ancora paruta vedere alcuna così bella né così piacevole, come queste sono. Elle son più belle che gli agnoli dipinti che voi m’avete più volte mostrati. Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colà su di queste papere, e io le darò beccare.

Disse il padre: - Io non voglio; tu non sai donde elle s’imbeccano -: e sentì incontanente più aver di forza la natura che il suo ingegno; e pentessi d’averlo menato a Firenze.

Ma avere infino a qui detto della presente novella voglio che mi basti, e a coloro rivolgermi alli quali l’ho raccontata. Dicono adunque alquanti de’ miei riprensori che io fo male, o giovani donne, troppo ingegnandomi di piacervi, e che voi troppo piacete a me. Le quali cose io apertissimamente confesso, cioè che voi mi piacete e che io m’ingegno di piacere a voi; e domandogli se di questo essi si maravigliano, riguardando, lasciamo stare l’aver conosciuti gli amorosi baciari e i piacevoli abbracciari e i congiugnimenti dilettevoli che di voi, dolcissime donne, sovente si prendono; ma solamente ad aver veduto e veder continuamente gli ornati costumi e la vaga bellezza e l’ornata leggiadria e oltre a ciò la vostra donnesca onestà, quando colui che nutrito, allevato, accresciuto sopra un monte salvatico e solitario, infra li termini di una piccola cella, senza altra compagnia che del padre, come vi vide, sole da lui disiderate foste, sole addomandate, sole con l’affezion seguitate.[...]

Melchisedech o i tre anelli